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Trento, 27 febbraio 2011
ALCIDE BERLOFFA, UOMO DEL DIALOGO E DELLA CONVIVENZA
di Marco Boato
da l’Adige di domenica 27 febbraio 2011

“Annus horribilis” questo che si è concluso venerdì 25, a cavallo tra il febbraio 2010 e il febbraio 2011, con la morte di Alcide Berloffa, cioè dell’ultimo protagonista storico altoatesino (anche se trentino di nascita) dell’autonomia del “Pacchetto” del 1969 e del secondo Statuto speciale del 1972, fino alla “quietanza liberatoria” da parte dell’Austria nel 1992, a conclusione della “vertenza sudtirolese” che si era aperta all’ONU nel 1960 e 1961. Nell’arco di dodici mesi esatti se ne sono andati tutti i principali protagonisti – collocati anche su schieramenti opposti – di una vicenda politica epocale, che ha completamente ridisegnato gli assetti istituzionali e costituzionali dell’Autonomia sudtirolese (ma anche trentina, essendo unico lo Statuto speciale per la Regione e per le due Province autonome di Bolzano e Trento).

Il primo a prendere congedo dalla vita terrena è stato proprio il più duro avversario, nel gruppo linguistico italiano, del “Pacchetto” e del secondo Statuto del 1972. Il 24 febbraio 2010, all’età di 88 anni (come Berloffa)  è morto infatti Pietro Mitolo, esponente storico dell’estrema destra post-fascista del Msi (e poi di An, fino al Pdl): uomo cortese nella forma, pienamente bilingue (cosa non molto frequente tra gli italiani dell’Alto Adige), vero ispiratore della feroce opposizione di Giorgio Almirante alla Camera dei deputati contro la nuova stagione autonomistica, e poi lui stesso, da deputato, strenuamente contrario anche alla terza riforma dello Statuto entrata in vigore con legge costituzionale (di cui fui io il primo firmatario) nel 2001.

Il 25 maggio 2010 se n’è andato, a 96 anni, Silvius Magnago, l’uomo del “los von Trient” di Castel Firmiano, ma anche il principale  protagonista – per il gruppo linguistico tedesco e per la Svp – di tutta la drammatica fase delle trattative che – pur nella stagione degli attentati e del terrorismo – riuscì (auspice Alcide Berloffa a livello locale e Aldo Moro a livello nazionale) a far prevalere la logica istituzionale della riforma statutaria sul feroce scontro etnico che si era innescato. Pochi ricordano (salvo gli addetti ai lavori) che Magnago solo per un soffio riuscì nel 1969, nel Congresso di Merano della Svp (che era il partito di maggioranza assoluta), a far prevalere una risicatissima maggioranza a favore delle norme del “Pacchetto” elaborate dalla “Commissione dei 19”. E pochi ricordano che Magnago rifiutò più tardi la nomina presidenziale a senatore a vita, non per disprezzo del Parlamento italiano, ma per il timore che i sudtirolesi di lingua tedesca considerassero in modo strumentale la sua eventuale accettazione.

Anche quello che per molti anni (prima della sua ultima rottura “a destra” rispetto alla Svp) è stato il vero e proprio “alter ego” di Magnago nella gestione della Provincia autonoma di Bolzano, ma soprattutto nelle durissime trattative decennali con lo Stato italiano, Alfons Benedikter, è morto più recentemente, il 3 novembre 2010, a 92 anni. Una volta Franco Bassanini – che per decenni ha seguito le vicende del regionalismo italiano e che fu giovanissimo docente a metà degli anni ’60 a Sociologia a Trento -, durante un colloquio tra colleghi in Parlamento sulle vicende sudtirolesi, mi disse ironicamente: “Se Benedikter fosse riuscito ad escogitare la formulazione giuridica adatta, sarebbe stato capace di proporre la proporzionale etnica (il “Proporz”) anche per l’aria che si respira in Alto Adige…”. Benedikter rappresentò l’ala più dura della Svp, ma aveva anche un grande amore per la sua terra e per l’ambiente sudtirolese, che temeva potesse essere snaturato dalla eccessiva industrializzazione e cementificazione.

Nessun commentatore, nel ricordare in queste ore e in questi giorni i protagonisti che hanno preceduto nella morte Alcide Berloffa, ha rammentato che poco più di due mesi fa, il 19 dicembre 2010, è scomparso a 86 anni anche Egmont Jenny, l’unico politico sudtirolese di lingua tedesca che negli anni ’60 e ’70 (l’avevo conosciuto a Egna, a casa di Sandro e Martha Canestrini, a cui era molto legato) aveva tentato una uscita “a sinistra” dalla Svp, formando l’unico partito “socialdemocratico” sudtirolese di lingua tedesca. Probabilmente in quegli anni di contrapposizioni etniche e di opposti nazionalismi era una sfida quasi impossibile, ma lui la tentò con coraggio e determinazione e per due volte rappresentò la sua pur piccola Sfp in Consiglio provinciale e regionale . Nel 2007, per le edizioni Raetia, ha pubblicato in tedesco la sua testimonianza a futura memoria nel cercare “la sua via verso la socialdemocrazia” (“Bekentnis zum Fortschritt.  Mein Weg zur Sozialdemokratie”).

Da ultimo, ma non certo ultimo per importanza, venerdì 25 febbraio 2010, se n’è andato silenziosamente anche il principale protagonista “italiano” della grande e drammatica vertenza sudtirolese. I meritati elogi che a Bolzano e a Trento gli vengono tributati in questi giorni – sotto l’impatto anche emotivo della sua scomparsa – non devono ingannare i cittadini sudtirolesi e trentini. Berloffa è stato davvero - anche con limiti ed errori, com’è proprio di tutte le cose umane (anche quelle politiche e istituzionali) – un grande protagonista della storia dell’Autonomia dagli anni ’60 agli anni ’90, dalle drammatiche conseguenze del ‘los von Trient’ fino alla “quietanza liberatoria” del 1992. Ed è vero che è stato il braccio destro (e anche sinistro) di Aldo Moro, sia come Presidente del Consiglio sia come Ministro degli esteri, ma anche di tanti altri politici nazionali (a cominciare da Giulio Andreotti, che pose il sigillo finale sulla vertenza internazionale). Ma è anche vero che è stato ben poco amato e sostenuto non solo dagli “italiani” di Bolzano (e spesso anche di Trento), ma anche da gran parte del partito della sua vita, la Democrazia cristiana, se si fa eccezione per la piccola corrente “morotea” (che però a Trento era rappresentata dalla figura grande e a lui solidale di Bruno Kessler). Molto di più fu sostenuto in quegli anni (ma questo aveva un grande valore morale, non un peso politico) dal vescovo di Bolzano e Bressanone, Josef Gargitter (e a Trento posizioni simili avevano il vescovo Alessandro Maria Gottardi e mons. Igino Rogger).

Nelle note biografiche di questi giorni, tutti hanno ricordato i suoi quattro mandati parlamentari, dal 1953 al 1976. Nessuno ha ricordato – ed era da pochi anni entrato in vigore il secondo Statuto di autonomia, cui tanto lui aveva contribuito – che nel 1976 Alcide Berloffa si ripresentò alle elezioni politiche nella lista per la Camera della Dc, ma non venne rieletto proprio nel momento del più grande successo politico-istituzionale. Ero personalmente presente nella primavera di quell’anno al Cinema Modena di Trento alla grande manifestazione elettorale della Dc, con la partecipazione di Aldo Moro. Berloffa era seduto sul palco vicino a lui e Moro nel suo discorso lo elogiò pubblicamente, chiedendo in modo accorato agli elettori dc del Trentino di sostenerlo elettoralmente, perché il consenso elettorale in Alto Adige si era fortemente ridotto proprio a causa della polarizzazione nazionalistica a destra dopo il “Pacchetto”. L’appello di Moro non fu accolto e Berloffa non venne rieletto. Il suo ruolo, anziché in Parlamento, da allora in poi si svolse esclusivamente, per 22 anni, nella presidenza delle Commissioni dei 12 e dei 6, e venne nominato anche Consigliere di Stato (anche questa è una nomina governativa, così come quella per lui nelle Commissioni paritetiche).

Nel l981, mentre si stava prospettando la prima applicazione del “censimento etnico” nominativo (introdotto con una norma di attuazione in piena estate nel 1976), Alexander Langer aveva dato vita ad una forte mobilitazione di opinione contro le “schedature etniche”, definite anche “le nuove opzioni”. Deputato alla mia prima legislatura, avevo promosso un dibattito alla Camera che durò per tre giorni. In quel periodo ebbi un colloquio con Alcide Berloffa (che aveva seguito dall’esterno dell’aula tutta la discussione) e gli proposi un incontro riservato con Langer. L’incontro avvenne a Palazzo Chigi, nell’ufficio del sottosegretario alla Presidenza del consiglio Bressan (un dc friulano, molto attento alle questioni altoatesine). Durò molto a lungo, ma Alex Langer e io ci accorgemmo che oramai “i giochi erano fatti” e che nulla più, almeno in quella prima applicazione (prima, nel 1971, il censimento linguistico era stato anonimo, e non una vera e propria “dichiarazione di appartenenza etnica”), era possibile modificare. Quell’incontro non fu comunque inutile, perché le ragioni di Langer erano fondate ed erano state ascoltate da Berloffa con grande rispetto. Nelle applicazioni successive, 1991 e 2001, furono introdotte modifiche che attenuarono l’impatto di quella “schedatura etnica” (ma nel 2001 Alex non c’era già più, essendo morto nel 1995).

Ho poi incontrato varie volte Alcide Berloffa, sia a Roma che a Bolzano. Anche se con posizioni diverse (che i Verdi sudtirolesi, nel rendergli omaggio sincero, hanno garbatamente ricordato nel loro comunicato), si è sempre dimostrato uomo del dialogo e della convivenza, anche se talora quasi “prigioniero” degli accordi ferrei con la Svp, che era necessariamente il principale interlocutore sia per lui che per i vari Governi che si succedevano. Nel 2004, quando ormai Berloffa era totalmente fuori da anni dall’agone politico e da qualunque ruolo istituzionale, ho partecipato in una sala della Camera (la “sala della Sacrestia” nell’ex-convento di Vicolo Valdina) alla presentazione del suo libro-intervista (col giornalista Giuseppe Ferrandi di Bolzano) “Alcide Berloffa, gli anni del Pacchetto” (Raetia). Fu un incontro tra pochi intimi: i parlamentari regionali (non tutti), vari giornalisti, qualche conoscente e amico. Mi sembrò (aveva già superato gli 80 anni, ma era lucidissimo) quasi una sorta di commiato anticipato, quasi un testamento discreto.

Ho rivisto per l’ultima volta Alcide Berloffa nel 2008, incontrandolo al “Cavallino Bianco” di via dei Bottai a Bolzano, esattamente di fronte alla sede dei Verdi sudtirolesi. Un incontro cordiale e diretto, come sempre, ma mi colse un senso di mestizia nel vedere l’inevitabile declino di quest’uomo che aveva segnato la storia sudtirolese (e così anche quella italiana), ma che aveva visto via via scomparire il suo partito e il suo mondo. Meritava davvero, da vivo, qualcosa di più, qualcosa che rendesse più autentici i tributi che gli vengono dati da morto. Mentre, se non ho visto male, nessun giornale italiano, a livello nazionale, gli ha dedicato neppure una parola. Berloffa meritava davvero di più, all’altezza dell’impegno e della dedizione che aveva profuso per tutta la sua vita, con “senso dello Stato”, ma anche col senso della comunità plurilingue a cui era fiero di appartenere e che aveva contribuito a migliorare in modo decisivo e duraturo.

Marco Boato

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